La legge del mercato, un pugno nello stomaco
La legge del mercato negli occhi di un cinquantenne che ha perso il lavoro ma si salva con l'amore e le relazioni sociali. Mentre gli altri si inabissano...Il film di Stéphane Brizé.
di Marìca Spagnesi - 8 Dicembre 2015
Thierry
sembra essere parte integrante del gioco, non sembra farsi troppe
domande, non sembra notare il fatto che è vittima e al tempo stesso
aguzzino di altre vittime come lui. Non più di tanto, almeno. Sembra
sostanzialmente accettarlo proprio come facciamo quasi tutti. Durante il
suo lavoro di controllo scopre piccoli furti di persone che, in
difficoltà come lui, si ritrovano a non avere i soldi sufficienti per
mangiare. Si trova a interrogare due sue colleghe cassiere che hanno
approfittato di buoni sconto e punti fedeltà trattandole, come prevede
il regolamento, come ladre. Una di queste si suiciderà in seguito a
questo episodio. L'uomo non ci mette niente di suo, fa quello che deve fare, non sembra coinvolto più di tanto, è il suo lavoro.
Allo
stesso tempo ha a che fare con la sua banca che cerca spietatamente di
approfittare delle sue difficoltà economiche. E' in questo modo che il
regista mette in evidenza l'assurda e violenta spirale all'interno
della quale ci troviamo tutti: la legge del mercato che senza pietà
distrugge le persone servendosi di loro, facendone vittime e mostri
inconsapevoli nello stesso momento. Mostri contro se stessi e contro
gli altri.
Le
sequenze sono volutamente lente. In ogni dialogo la macchina è
praticamente ferma e gli attori sono di profilo, uno davanti all'altro.
Magistrale il colloquio di lavoro via skype: il protagonista e il
computer faccia a faccia. Risalta lo spessore dell'uno e dell'altro. I
pochi millimetri dello schermo e la presenza fortissima dell'uomo
composto, nervoso, in soggezione di fronte a una macchina. Non si vede
mai la faccia del selezionatore dall'altra parte dello schermo ma questo
lo giudicherà ed eliminerà in pochi minuti. Le emozioni da una parte,
l'umanità tutta intera fatta di emozioni e difficoltà, paura e
speranza. Dall'altra lo specchio di ciò che l'uomo sta diventando
prestandosi senza fare troppe domande a questo gioco freddo e disumano.
Il
protagonista sembra assistere quasi assorto, distaccato, senza parole a
ciò che sempre di più sembra non tornargli, essere privo di senso: la
tristissima festa organizzata in occasione di un pensionamento, la
riunione con i capi dopo il suicidio della collega. Il direttore prova a
scrollarsi di dosso responsabilità pesanti come macigni relegando il
fatto come dovuto semplicemente a problemi personali.
Thierry
ha uno sguardo profondissimo, gli occhi quasi spalancati,
sproporzionati, gonfi, stanchi. La barba è sempre lunga, in ogni scena
l'aspetto è dimesso. Sembra un uomo che si è appena svegliato, che inizi
a vedere ciò che gli altri, sebbene nelle stesse condizioni, non hanno
ancora la capacità di vedere. Il mondo intero intorno a lui ci appare
superficiale, ordinato, efficiente, cortese, velocissimo. Lui è in
contrasto con la sua lenta ma inesorabile evoluzione interiore, lucida e
profondamente umana, fortissima, dirompente.
Thierry
è un uomo solido, sostenuto da una famiglia che è dalla sua parte già
solo con la sua presenza. Il resto sembra inutile. E' supportato da un
amore che c'è, senza bisogno di spiegarlo o di dialoghi ad
evidenziarlo. Bellissima la scena della lezione di ballo, tutta con la
macchina fissa, come lo spettatore fosse lì a guardare. Sono le uniche
scene in cui il protagonista sorride. Sembra non esserci spazio per
farsi distruggere dalle difficoltà, da ciò che viene da fuori.
L'intimità che si crea e che si respira tra lui e sua moglie è
profondamente commovente nella sua normalità. Sembra essere lì come un
muro indistruttibile, fermo e solidissimo contro ciò che di assurdo,
illogico e disumano viene da fuori. E' l'amore come vita stessa, come
ultima e necessaria barriera a proteggerci dalla follia di un mondo che
funziona al contrario, che ci vuole sottomessi, umiliati, pressati,
usati e poi gettati via.
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