sabato 21 novembre 2020

Steve Mc Queen

Terence Steven McQueen (Beech Grove, Marion County, Indiana, 24 marzo 1930) era di origini inglesi, scozzesi, gallesi, irlandesi, olandesi, tedesche. Figlio d’uno stuntman, che abbandonò presto la moglie, il piccolo Steve fu mandato a vivere a Slater, nel Missouri, presso uno zio. All’età di 12 anni tornò a vivere con la madre, che nel frattempo si era trasferita a Los Angeles, in California. A 14 anni era già membro di una gang di strada: la madre mandò il ragazzo presso una scuola di correzione californiana, la California Junior Boys Republic presso Chino Hills. Abbandonato l’istituto, McQueen cambió vari lavori ed entrò nel corpo dei Marines dove prestò servizio dal 1947 al 1950. Nel 1952, grazie a un prestito, incominciò a frequentare i corsi di recitazione dell’Actor’s Studio di Lee Strasberg a New York.  Nel 1955 McQueen debuttava a Broadway. Lavorò in varie serie televisive. Esordì nel mondo del cinema con un piccolo ruolo nel film Lassù qualcuno mi ama (1956) di Robert Wise, ma la sua prima grande interpretazione può essere considerata quella del cowboy Vin nel western I magnifici sette (1960) di John Sturges. L’anno successivo fu la volta del film bellico L’inferno è per gli eroi (1961) di Don Siegel, in cui ritrovò l’amico James Coburn, con il quale aveva già lavorato ne I magnifici sette, e nel quale interpretò il difficile ruolo di John Reese, un ex sergente che viene degradato per insubordinazione e per ubriachezza. La definitiva consacrazione per McQueen giunse grazie al kolossal  La grande fuga (1963), sempre diretto da John Sturges, in cui interpretò il ruolo dell’audace e spericolato capitano Virgil Hilts, uno dei personaggi che lo resero  celebre nel mondo del cinema. Nel 1965 il regista Norman Jewison lo scritturò per Cincinnati Kid (1965), dove l’attore recitò il ruolo del giocatore di poker Eric Stoner, in un’intensa e seducente interpretazione. Nel 1966, diretto da Robert Wise nel film Quelli della San Pablo, McQueen ottenne la sua prima ed unica nomination all’Oscar come miglior attore protagonista, senza riuscire a vincerlo. Norman Jewison tornerà a dirigere McQueen nell’elegante Il caso Thomas Crown (1968), con Faye Dunaway.

Nello stesso 1968 l’attore venne diretto da Peter Yates per il poliziesco Bullitt, di enorme successo.

Nella prima metà degli anni settanta McQueen consolidò la propria fama quando Sam Peckinpah gli propose un ruolo da protagonista nel western moderno L’ultimo buscadero (1972); riuscì a farsi apprezzare dal regista, tanto da proseguire la collaborazione con lui in un altro ruolo da protagonista,  nel poliziesco Getaway! (1972). L’anno successivo fu la volta di Papillon (1973), pellicola avventurosa di ambiente carcerario, diretta da Franklin J. Schaffner. Il personaggio di Henri Charrière viene considerata da molti l’interpretazione fisicamente ed esteticamente migliore e più impegnativa di McQueen. L’anno dopo John Guillermin lo diresse in un ambizioso progetto di genere catastrofico, il kolossal L’inferno di cristallo (1974), accanto a Paul Newman ed a William Holden. Nella seconda metà degli anni settanta la carriera dell’attore entrò in una fase di declino. Nel 1979 gli venne diagnosticato il tumore che lo condurrà alla tomba il 7 novembre 1980.     (Da https://it.wikipedia.org/wiki/Steve_McQueen).

Il 2 novembre 1956 McQueen aveva sposato l’attrice e ballerina filippina Neile Adams, dalla quale ebbe due figli: Terry e Chad. Nel 1972 Steve e Neile divorziarono. Il 31 agosto 1973 McQueen sposò l’attrice Ali MacGraw, sua affascinante partner nel film Getaway! Per lo   sciupafemmine biondo dagli intensi occhi azzurri lei aveva abbandonato il marito, il produttore Robert Evans. La tumultuosa relazione terminò con il divorzio nel 1978. Il 16 gennaio 1980, dieci mesi prima di morire, McQueen sposò la giovane modella Barbara Minty, minore di lui di 23 anni. Contemporaneamente, egli aveva avuto innumerevoli altre storie sentimentali (o erotiche).

Tornerà mai l’immagine di un nuovo divo eccessivo, barocco e visionario come lui? Un personaggio più mistico che mitico che fra una storia d’amore (se di amore si poteva parlare) e l’altra, e fra un film e un giro in moto, si è reso immortale agli occhi del mondo? No. Steve McQueen è unico. E il destino non gioca mai la stessa carta, neanche se è di un altro colore. Era nato a Indianapolis, la patria delle corse automobilistiche”.

Ha scritto Fabio Secchi Frau sul tramonto della vita di McQueen, a causa di un mesotelioma pleurico (un tumore associato all’esposizione all’amianto, materiale ignifugo per le tute dei piloti utilizzate anche da McQueen, che era pure un gran fumatore): 

Preso da poco il brevetto di pilota d’aereo, gli venne diagnosticato un cancro allo stomaco, il 22 dicembre 1979. Gli restavano solo pochi mesi di vita. Prima che fosse tardi, si sposò una terza volta. Dopo il suo ultimo film lasciò la sua dimora hollywoodiana, le 210 motociclette, le 55 macchine (con alcune tra le più famose auto sportive dell’epoca) ed i 5 aerei e si chiuse in una clinica messicana, diretta da uno pseudo médico-curandero americano, William Donald Kelley, che applicava costosissimi ‘trattamenti alternativi’, tra i quali il Laetrile, un composto chimico derivato dall’amigdalina, sostenendo falsamente che servissero per curare i tumori. Morì a Ciudad Juárez sotto falso nome, dopo un’operazione voluta, pare, contro il parere dei medici (ormai il cancro si era metastizzato), per due attacchi cardiaci alle 15.45 di un caldo 7 novembre del 1980; accanto all’ultima moglie e all’istruttore di volo ed amico Sammy Mason, mormorando il numero di matricola che lo aveva identificato negli anni del riformatorio, 3188. Venne cremato e le sue ceneri sparse sull’Oceano Pacifico. Il suo nome entrò o si consolidò nella leggenda, divenne il simbolo di una vita spericolata che affascinò e continuerà ad affascinare intere generazioni di giovani “ribelli”, diventando “una delle più imitate e meno imitabili stelle di Hollywood”. Un interprete rustico, genuino e disincantato che mostrava l’aspetto più affascinante dell’America profonda. Uomini e donne sono stati sedotti da questo eroe del cinema d’azione, che ha vissuto di corsa come se volesse rifarsi di una giovinezza rubata. Era cool, solitario, impudente, aggressivo, distaccato e uno dei sex symbol più controversi del panorama cinematografico mondiale… (Da Fabio Secchi Frau, Steve McQueen 3188, in https://www.mymovies.it/biografia/?a=2824).

Grande (o almeno ammirato) e famoso attore, icona del mondo della settima arte e dei motori, generoso, meschino, contraddittorio, coraggioso, spericolato, freddo ed impulsivo, attaccabrighe, avido di denaro, misogino e maschilista d’altri tempi, manesco, ruvido, arrogante, egoista…. Uno dei simboli di Hollywood più caratteristici ed inossidabili, comunque. L’immagine fresca di un McQueen eternamente trentenne continua oggi ad essere in vigore, epitome del giovane, moderno, anticonformista, ribelle, cool, come si usa dire. L’infanzia infelice, la dislessia, la parziale sordità, le percosse, la madre alcolizzata e probabilmente prostituta, il passato squallido di piccolo delinquente giovanile, il riformatorio, i tentativi di fuga, il disadattamento sociale, i mille lavoretti: da marinaio della marina mercantile (lasciò la nave due settimane dopo l’imbarco, a Santo Domingo) a giocatore di poker professionista, da meccanico a scaricatore di porto, fino ad arruolarsi nei Marines, dove rimase per 3 anni dal 1947 al 1950. Sceso a terra, continuò a guadagnare miseri stipendi come taxista, piastrellista, ciabattino, fattorino in un bordello, mestieri che lo spinsero dal desolato Texas al più florido Canada, fino a ritornare a New York. Poi il successo sfavillante e, infine, la morte precoce a 50 anni hanno alimentato sempre più la leggenda (con buone dosi d’immaginazione) di uno degli attori più carismatici della storia del cinema.  

Steve fu un uomo esagerato, temerario, amante del rischio, avido di adrenalina ed assai impaziente. Amava la velocità al di sopra di tutto. Da molto giovane partecipò a corse di moto ed auto, legali o no. Grazie ai guadagni realizzati potè realizzare il suo sogno: acquistare una Harley-Davidson. La prima di tante altre. Alla fine della vita aveva riunito un’impressionante e preziosa collezione, nel suo genere pressochè unica al mondo. Quando ne aveva la possibilità, appariva egli stesso nelle scene che solitamente erano affidate agli stuntman. Le più famose sequenze motoristiche vennero girate per il film Bullitt e nella cattura finale di Hilts ne La grande fuga, quando McQueen cerca di raggiungere la Svizzera a bordo di una Triumph mascherata come se fosse una BMW. Durante la sua carriera cinematografica McQueen si cimentò in parecchie gare e considerò più volte l’ipotesi di abbandonare il cinema per dedicarsi completamente alle corse. Nel 1970 partecipò alla 12 Ore di Sebring con una Porsche 908/02, di tre litri, alternandosi alla guida con Peter Revson, arrivando primo nella sua categoria e secondo assoluto a soli 23″ dai vincitori Ignazio Giunti, Nino Vaccarella e Mario Andretti su Ferrari 512 S, di cinque litri di cilindrata. L’attore prese parte anche a varie gare motociclistiche durante gli anni sessanta e i settanta, a bordo per lo più di una Triumph Bonneville e di una Triumph 500. 

Era nel frattempo diventato insopportabile sul set, creando attriti continui con registi, sceneggiatori, produttori, partner, cosicchè la sua agenda d’impegni risultò vuota… McQueen approfittò del momento per concretizzare un progetto assai desiderato, da tempo. Nacque così il film Le 24 Ore di Le Mans (1971). Come previsto, la pellicola non ebbe successo, essendo senza una storia, una vera sceneggiatura, diretta da Lee H. Katzin, un regista televisivo, riducendosi ad un documentario, seppur tecnicamente ineccepibile. Rimane con Grand Prix (1966) di John Frankenheimer e Fangio.Una vita a 300 all’ora (1980) di Hugh Hudson, uno dei più avvincenti   lungometraggi sul mondo delle corse automobilistiche. Il film fu un flop, ma viene ricordato dagli appassionati come una realistica testimonianza su uno dei più famosi periodi della storia motoristica (quello degli indimenticabili duelli tra Ferrari, Porsche, Ford, delle potenti vetture Sport Prototipi e Gran Turismo che sfrecciavano sul rettilineo des Hunaudières a oltre 400 km/ora) e come uno tra i migliori movies di corse mai girati. McQueen non partecipò, comunque, alla 24 Ore del 1970, quella filmata, per l’opposizione della produzione. 

  Poi, nonostante il successo planetario ed il guadagnare più dei grandi di Hollywood, per un periodo Steve smise di lavorare. Si rifugiò con la moglie Ali nella sua casa de Malibù e dedicò i suoi giorni a bere, fumare, drogarsi e correre in moto (era solito unirsi alla banda di motociclisti ‘Angeli dell’Inferno’).     

Gli inizi. McQueen si era convertito in una delle maggiori stelle del mondo della celluloide, presto una delle più ricercate e retribuite, con appena poche esperienze in serie televisive ed in ruoli secondari negli anni ’50. Se John Eliot Sturges confidò in lui per il remake de ‘I sette samurai’ di Akira Kurosawa, titolato I magnifici Sette’ (1960), fu perchè intravide qualcosa di estremamente promettente in quel ragazzo magro, muscoloso, dai grandi occhi azzurri, sebbene non gli concedesse molte linee di dialogo. Molti si ricorderanno più della sua faccia che di quella, peraltro assai peculiare, di Yul Brynner. Era arrivata un’icona persistente e duratura al principio di una decade di grandi avvenimenti, di cambi profondi nella società e nel costume. Al di là se McQueen fosse un attore buono o mediocre, interessante, sfacciato, istrionico, egocentrico con i compagni del cast, lunatico, dispotico e possessivo nel successo, generoso nella miseria, la sua feroce sincerità s’imponeva anche sulle sue virtù, peraltro non tanto scarse, di attore. Un artista molto fisico, autorevole e potente quando parlava, ancor più quando taceva. Nonostante l’aria da duro, Steve aveva un cuore tenero, s’indovinava, o faceva piacere crederlo ai suoi fans.

McQueen si convertì precocemente nel ‘re del cool‘, con varie interpretazioni confezionate apposta per i suoi mezzi espressivi e personalità. Si sarebbero potuti chiamare i film “di” Steve McQueen, sebbene le dirigessero altri. Fu rapida, inarrestabile la sua ascesa al Parnaso di Hollywood. Era l’attore più pagato, più conosciuto, più ammirato ed imitato, quello che con più fortuna interpretò sé stesso durante tutta la sua carriera, indipendentemente dai ruoli diversi portati sullo schermo, in fondo sempre condotti a ‘territori intimi’ in grado di motivarlo adeguatamente. L’uomo aveva una personalità complessa o doppia. Ad esempio, egli criticava pubblicamente le droghe, ma fumava marihuana ed era un consumatore abituale di cocaina ed altre sostanze psicotropiche. Si accreditava come un marito solido, retto e fedele, ma in realtà era un donnaiolo impenitente dalle numerose amanti ed avventure, anche mercenarie, e trascorreva le serate in esclusivi club notturni. 

In ultima analisi, è stato detto, McQueen trascorse tutta la vita cercando il padre che non aveva avuto, gli insegnamenti che non aveva ricevuto, la sicurezza che un padre dovrebbe dare, nel quale poter riporre fiducia, indipendentemente dalla loro età. Uno di essi fu Pat E. Johnson (discepolo di Chuck Norris e di Bruce Lee), il suo allenatore di arti marziali (l’American Tang Soo Do, un ibrido coreano-giapponese-americano); l’altro, alla fine dei suoi giorni, l’istruttore di volo.

McQueen, Newman e Brando costituirono una triade indimenticabile di stelle. Tutti appassionati di motori, alla pari di James Dean, il ribelle per antonomasia.  Che deve la sua perdurante popolarità soprattutto a Rebel Without a Cause, nel quale ricopre il ruolo del problematico ribelle adolescente Jim Stark, in un film diretto da Nicholas Ray, presentato nel 1955, poco prima del suo prematuro decesso. Un attore tormentato e torbido, simile al suo personaggio, introverso, grezzo, melanconico ed appassionato, dalla sessualità indefinita, alla ricerca, si scrisse, di una impossibile purezza esistenziale. Una ribellione non sociale, ma tutta individuale, tipica della Beat Generation, come quella più sfumata di McQueen. Sullo sfondo, naturalmente, l’ombra di Jack Kerouac e del suo famosissimo On the Road, scritto nel 1952 e pubblicato nel ’57. Fernanda Pivano introdusse la traduzione italiana dell’opera, nel 1959, con un saggio pregnante dal titolo omonimo. Per lei Kerouac e gli altri scrittori del movimento, da Allen Ginsberg a William S. Burroughs, erano giovani, come tanti altri, figli della opulenta società statunitense uscita dalla WWII, il cui punto di partenza era 

“il rifiuto di tutte le norme e di tutti i valori morali ortodossi o convenzionali. (…) La ricerca disperata di un nuovo valore morale, di una nuova ragione del mondo, di una nuova spiegazione della vita, fa dunque di loro una tormentata generazione di mistici e di filosofi, alcuni sono cattolici, alcuni buddisti, tutti credono in Dio, nella vita, nella personalità umana (…) droga e alcool, promiscuità sessuale ed esaltazione musicale sono per loro mezzi per riscoprire un’identità smarrita in un secolo più sconcertante di loro. Questi giovani respingono la massa e la società per affidarsi a sé stessi e per trovare in sé stessi una traccia di valori trascendenti che possano guidarli nel viaggio sempre più breve, futile, tempestoso della vita”. 

Il biondo Steve dagli occhioni azzurri, laghi nei quali perdersi, gran seduttore per temperamento e successi ottenuti, era più elementare, forse non cercava, almeno consciamente, purezze e bagni catartici…Aveva studiato all’università della strada, in riformatorio e coi Marines. McQueen fu, in ogni caso, un attore mitico, famoso ed ammirato ben oltre la morte, quella che colse Dean a soli 24 anni. Capace con un gesto, uno sguardo, di offuscare tutto ciò che lo circondava. Uno sguardo enigmatico, unico. Al di là del suo contenuto sorriso ‘da cane bastonato’ o da ‘adorabile canaglia’, la sua interpretazione asciutta, sobria, e l’espressione facciale poco dinamica ed espressiva rimandano al suo coetaneo Clint Eastwood, che però ebbe almeno altri 40 anni per affermarsi, sia come attore, sia soprattutto come regista. Steve Mc Queen girerà in tutta la sua carriera una trentina di lungometraggi, ma forse avrebbe potuto col tempo convertirsi anch’egli in un grande regista. Chissà…

Le tre mogli di Steve sono ancora tutte viventi. A parte l’ultima, una giovincella sposata, chissà, per non agonizzare solo, le prime due hanno lasciato ritratti al vetriolo dello scomparso attore. Così come il figlio Chad. Di un uomo che dietro l’incantevole e rassicurante facciata amica nascondeva un fascio d’insicurezze, pieno di complessi, con troppi demoni dentro, possessivo, geloso, machista e violento.

Neile Adams (Manila, 10 giugno 1932) fu la moglie durante 16 anni di Steve McQueen ed è la zia di Isabel Preysler. Nel 1956, quando Neile conosce McQueen, stava recitando a Broadway, ricevendo critiche entusiastiche. McQueen non era ancora del tutto uscito dalla sua vita errabonda. L’uomo che sarebbe stato battezzato The King of Cool, il prototipo della virilità, trascinava conflitti interiori irrisolti. “Quando Steve iniziò, io lo aiutai ad affinare il suo registro; era ossessionato dall’ansia di somigliare a Marlon Brando e Paul Newman” confesserà la donna. “Quanto più cresceva il suo potere a Hollywood più aumentava la sua ansia di sesso, di droghe”. Per anni, mentre McQueen spendeva i soldi di Neile, lei gli  cercava lavoro e lo aiutava a dirozzarsi, a migliorare le sue maniere. I suoi ruoli non necessitavano di troppi dialoghi, anche perchè non era un attore a suo agio con le parole; il sorriso era accattivante e conosceva il potere magnetico dei suoi profondi occhi azzurri. Era conscio del proprio ascendente su uomini e, soprattutto, su donne. La coppia esplose quando Steve le domandò se avesse avuto amanti. Dopo aver condiviso una buona quantità di cocaina la donna ammise un tradimento con Maximilian Shell (Premio Oscar per Vincitori e Vinti), una pistola puntata alla tempia. Steve la picchiò, soprattutto furioso perchè il tradimento era avvenuto con un suo collega, ed altrettanto fece nei giorni seguenti. Neile scoprì di essere incinta. Steve, negando la paternità, la costrinse a recarsi a Londra ad abortire. Divorziarono poco dopo, nell’ottobre 1971. L’uomo entrò in una crisi nella quale, secondo Neile, “solo esistevano alcol, la marihuana e il peyote”. Pianta della famiglia delle cactacee, tipica del deserto messicano, una sostanza allucinogena. (cfr. https://www.revistavanityfair.es/sociedad/articulos/la-fascinantevida-de-neile-adams-la-tia-de-isabel-preysler-que-enamoro-a-steve-mcqueen/36450).

Steve amava molto i suoi figli, in ogni caso. Passò in solitudine poco tempo, tuttavia. 

Elizabeth Alice MacGraw (Pound Ridge, New York, 1º aprile 1939) fu candidata all’Oscar alla miglior attrice per Love Story, del 1970, e vincitrice del Golden Globe come miglior attrice drammatica. Figlia di Richard MacGraw, di origini scozzesi, e di Frances Klein di origini ungheresi, con ascendenze ebraiche. Ali aveva fatto parte della redazione della rivista Harper Bazaar’s come aiuto di un celebre fotografo di moda, e lei stessa fu una fotomodella di grande successo. Venne scritturata per The Getaway con McQueen e fu l’inizio del suo inferno. L’attore trovò una nuova donna disponibile da portare a letto, distruggendo un’altra carriera promettente per soddisfare il suo ego. Anche se, forse, fu il più grande amore della sua vita. Ali, splendida trentenne di alta statura, di carnagione bruna con lunghi capelli scuri, il corpo magnifico e lo sguardo affascinante e sensuale, cadde innamorata pazza del rubacuori dallo sguardo inquietante: un “duro” dello schermo che lo era, però, anche nella vita privata. “Era drogato tutti i giorni della nostra relazione”, raccontó MacGraw nel suo Moving Pictures: An Autobiography, del 1991. Era ossessionato dalla gelosia e terrorizzato dall’ idea che la moglie tornasse davanti alle camere. Una relazione incomprensibile ai più: Steve era un despota antidiluviano e lei una donna presumibilmente emancipata della costa Est. Ali era una delle attrici più richieste, ma con Steve si trasformò in una casalinga che gli serviva la cena alle 6 del pomeriggio per evitare i suoi attacchi d’ira. Nonostante fosse una delle donne più belle del mondo viveva nella paura costante che lui l’abbandonasse. Come Neile, Ali MacGrow dovette sopportare che McQueen esibisse le sue conquiste e talora la picchiasse. Sebbene mai gli fu infedele, la gelosia compulsiva del marito la convertì in una donna sottomessa e rassegnata. Con alcol e droga parte costante della sua vita quotidiana, Ali MacGraw reagì tardi, ma lo fece. Cinque anni dopo il colpo di fulmine che li unì, lei decidette di tornare al cinema con Convoy, un film britannico-statunitense, diretto por Sam Peckinpah (lo stesso regista di Getaway!). Un furioso McQueen la cacciò di casa, praticamente senza denaro. Era il 1978.

(https://www.libertaddigital.com/chic/corazon/2019-04-02/ali-macgraw-y-el-calvario-que-paso-por-las-drogas-y-steve-mcqueen-1276635887).

Chad McQueen, figlio di Steve, nato nel 1960 (a sua volta padre di tre figli), attore, pilota, produttore, affermò brutalmente, dal canto suo, nel 2014, che “mio padre era una canaglia”. Non un tipo simpatico, pulito e nobile, che alla fine della vita ebbe un’ umanissima paura della fine, cercando i conforti di ‘medicine alternative’ e della fede cristiana. No, una canaglia, un bad boy. La sorella Terry Leslie morì a soli 38 anni, nel 1998, per insufficienza respiratoria. (cfr. http://www.bikergaraje.com/2014/11/el-hijo-de-steve-html).

Della vasta filmografia di Steeve McQueen ho scelto di scaricare da Internet e rivedere, accingendomi a scrivere quest’articolo, Bullit e Getaway! Con The Great Escape e Papillon le sue più memorabili interpretazioni, penso.

Bullit di Steve McQueen

Bullitt  è un film del 1968 diretto da Peter Yates, regista e produttore britannico. Un thriller  imperniato sulla figura di un tenente di polizia abile ed astuto, Frank Bullit,  di poche parole e diffidente, che riesce a risolvere un intricato caso, nonostante le pesanti interferenze di un  politico e l’avversione del suo stesso distretto. Tratto dalla novella di Robert Fish, Mute Witness, del 1963, la trama si svolge a San Francisco  e divenne celebre per la scena d’inseguimento di dieci minuti – un prodigio di riprese e montaggio – tra una Dodge Charger R/T di colore nero (motore V8 di 7.2 litri, 375 CV, una muscle car con la caratteristica calandra a forma di rasoio elettrico e fanali a scomparsa), con Bill Hickman al volante, ed una Ford Mustang GT 390 Fastback (motore V8 di 6.4 litri, 324 CV), guidata dallo stesso McQueen, dal colore Dark Highland Green. 

1968, 52 anni fa. Riflettevo l’altra sera che la San Francisco di Bullitt non sembra esser cambiata molto rispetto ad oggi (cellulari ed Internet a parte), né il modo di vestire di uomini e donne, né gli aerei e l’aeroporto, né i cibi surgelati o le insegne dei Mc Donald’s… Neppure le auto in fondo. Abbastanza son cambiate le carrozzerie e le dimensioni (non sculettano più vistosamente), ma non tanto come le vetture di quel tempo paragonate a quelle degli anni ’30. Eppure. Anche se erano diventate esagerate, ostentose, in essenza rimanevano più o meno gli stessi veicoli, con telaio indipendente e motori pluricilindrici, di decadi anteriori, pur se più veloci delle Cadillac o dei Ford V8 Flathead (testa piatta), monoblocco – passati dai 65 CV del 1932 ai 100 Cv del 1937 – e con freni più efficaci. Ideali per assaltare le odiate banche, per Dillinger o Bonnie & Clyde, durante la Deep Depression, e fuggire, lasciandosi dietro una nuvola di polvere…

Getaway! (The Getaway) è un film del 1972 diretto da Sam Peckinpah. “Doc” McCoy è rinchiuso in prigione. Doc sa che Jack Benyon, all’origine della sua carcerazione, sta per combinare una rapina in grande stile. Chiede a sua moglie Carol di parlare con Benyon e dirgli che lui è sul mercato, se solo Benyon riuscirà a tirarlo fuori del penitenziario per buona condotta. Quando McCoy esce, il suo compito sarà quello di svaligiare una banca. La rapina va male e dopo una serie di peripezie e sparatorie, con molti morti, McCoy riesce a passare indenne la frontiera del Messico con Carol a El Paso. Il Codice Hays di autoregolamentazione etica degli Studios, in vigore dal 1934, era stato dismesso nel ’67…

È tratto dall’omonimo romanzo di Jim Thompson.  Thompson è considerato il terzo grande autore nordamericano di noir, all’interno del genere poliziesco, al fianco di Dashiell Hammett e Raymond Chandler. Il mondo che riflettono le narrazioni di Jim Thompson è nichilista, popolato di sconfitti, profittatori, psicopatici, sociopatici; non vi appare altra morale che il proprio beneficio. Sam Peckinpah fu un noto regista e sceneggiatore di cinema, televisione e teatro statunitense. Già aveva diretto McQueen in L’ultimo buscadero (Junior Bonner). È rimasto conosciuto soprattutto per le controversie generate dalla violenza ritratta nelle sue opere. Per alcuni critici un’apologia della violenza che finisce per banalizzarla. Peckinpah ha altresì apportato lirismo, la profondità psicologica dei suoi personaggi, ha riformulato il western classico conducendolo a zone più crepuscolari. 

Peckinpah ebbe influenza sul genere trash di Quentin Tarantino, per rimanere al più noto, e pure su Oliver Stone di Natural Born Killers e di U Turn. Un film, quest’ultimo, del 1997 con  Sean Penn, Jennifer Lopez, Nick Nolte. Un guasto al motore della sua Mustang rossa obbliga Bobby ad una fermata in uno squallido paesino nel deserto dell’Arizona. I tipi umani che vengono a contatto con lui nella trama sono tutti psicotici, aggressivi, malviventi. La pellicola cerca di dare un’immagine più dura possibile dell’ostilità dell’ambiente circostante, allegoria degli abissi tenebrosi dell’identità umana, il massimo di negatività non dominata.

Getaway! non solo conferma il successo e la levatura professionale di Steeve McQueen e di Ali MacGrow, ma apporta elementi rilevanti al Road movie, genere che ha come protagonista il viaggio, solitamente lungo, per le interminabili strade nordamericane (come la celebratissima, vecchia Route 66) e le stazioni di servizio, con i loro peculiari personaggi. 

Tali viaggi attraversano a volte gli Stati Uniti coast to coast. I Road Movie hanno i loro capostipiti letterari nei romanzi The Grapes of Wrath di John Steinbeck, del 1939, e On the road di Jack Kerouac del 1957. Easy Rider di Dennis Hopper, del 1969, è un altro famoso cult movie: come ebbe a dichiarare il regista s’ ispirò al film italiano Il sorpasso di Dino Risi, del 1962. Eredi della tradizione letteraria del ‘viaggio iniziatico’ che risale all’ Odissea omerica, queste opere miscelano la metafora del viaggio come sviluppo del personaggio con la cultura della colonizzazione, della mobilità nordamericana, laddove un’auto è parte dei segni d’identità dell’adulto. Nelle pellicole di strada apertamente iniziatiche il viaggio svela al protagonista verità su sé stesso, non sui luoghi. Spesso la anagnorisis del personaggio, il riconoscimento di sé, gli rende impossibile tornare indietro, scegliendo l’esilio definitivo o la morte, come in Thelma e Louise. 

Nel caso di Getaway! la fuga ebbe, dunque, un esito felice, verso la libertà, la sicurezza, al tepore di affetti (almeno apparentemente) appaganti e durevoli… Quelli che McQueen mai trovò.

Bibliografia. Il maggior biografo di Steve McQueen è il giornalista e scrittore statunitense Marshall Terrill, autore di Steve McQueen: Portrait of an American Rebel, (Donald I. Fine, 1993); Steve McQueen: The Last Mile, (Dalton Watson, 2006); Steve McQueen: A Tribute to the King of Cool, (Dalton Watson, 2010); Steve McQueen: The Life and Legacy of a Hollywood Icon, (Triumph Books, 2010); Steve McQueen: In His Own Words, (Dalton Watson, 2020). Nel marzo 2015 venne annunciata la realizzazione di un film dal titolo provvisorio McQueen, in parte basato sull’opera del 2010 scritta da Terrill: “Steve McQueen: The Life and Legacy of a Hollywood Icon”. Pare che l’iniziativa allora naufragò. Finalmente, il 9 settembre 2019, è stata diffusa la notizia che Wonderfilm Media Corporation, con sedi a Beverly Hills e Vancouver, aveva acquisito i diritti del libro succitato di Terrill per adattarlo ad una sceneggiatura cinematografica. Sempre nel 2019 Marshall Terrill ed il pastore Greg Laurie hanno dato alle stampe il libro illustrato Steve McQueen: The Salvation of an American Icon. Greg Laurie, con Parker Adams, è stato anche autore del documentario Steve McQueen: American Icon nel 2017, con testimonianze di varie stars: Mel Gibson, Mel Novak, Gary Sinise. 

Opere dedicate. Molte opere (non solo libri e documentari), canzoni, prodotti, dagli orologi alle auto, sono stati dedicati all’affascinante “King of Cool”. Anche delle pubblicità ricreate digitalmente.

@barbadilloit 

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