Jean-Luc Godard non c’è più. Il regista franco-svizzero, simbolo della Nouvelle Vague, è morto all’età di 91 anni. Ne ha dato notizia il quotidiano francese Libération. Godard, insieme a François Truffaut, Jacques Rivette, Claude Chabrol e Éric Rohmer, figura tra i fondatori del Nouvelle Vague, la generazione di giovani cineasti che ha rivoluzionato il modo di fare cinema e ha introdotto il concetto di cinema d’autore. Il regista, al pari dello scrittore è il responsabile del film. La sua importanza è decisiva. La sua figura prevale su quella del produttore.
Il termine Nouvelle vague (“Nuova onda”) appare per la prima volta sul settimanale francese L’Express il 3 ottobre 1957, in un’inchiesta sui giovani francesi a firma di Françoise Giroud, e viene ripreso da Pierre Billard nel febbraio 1958 sulla rivista Cinéma 58. Con questa espressione si fa riferimento ai nuovi film distribuiti a partire dal 1958 e in particolare a quelli presentati al festival di Cannes l’anno successivo. Sono oltre 150 le opere di Godard, tra film e video.
Fra i più celebri, quello che viene considerato il manifesto della Nouvelle Vague, À bout de souffle (Fino all’ultimo respiro), girato nel 1960 e interpretato da Jean-Paul Belmondo e Jean Seberg. Poi, Le Mépris (Il disprezzo), una rielaborazione del romanzo di Alberto Moravia, con Brigitte Bardot e Michel Piccoli, Pierrot le fou (Il bandito delle 11), sempre con Jean-Paul Belmondo, e Si salvi chi può (la vita), con Isabelle Huppert.
“Nel cinema francese, fu come un’apparizione. Poi, ne divenne un maestro”: così in un tweet, il presidente francese, Emmanuel Macron, ricorda Jean-Luc Godard. “Era il più iconoclasta fra i registi della Nouvelle Vague – ricorda Macron – aveva inventato un’arte assolutamente moderna, intensamente libera. Perdiamo un tesoro nazionale, uno sguardo da genio”.
Il genio del cinema è diventato l’uomo invisibile del cinema mondiale. Non si mostrava in pubblico, aveva trasformato il suo domicilio ginevrino nella “caverna” di Platone, schivava le cerimonie ufficiali, non accompagnava i suoi film, evitava perfino di ritirare i premi. Nato a Parigi dal genitori protestanti svizzeri il 3 dicembre 1930, si poteva permettere un’adolescenza da studente curioso e specialmente sensibile al mondo americano, conosciuto come casa sua, grazie alle centinaia di film che può vedere alla Cinémathèque francese del Palais de Chaillot sotto la paterna tutela del suo mentore, Henri Langlois. Si laurea in etnologia alla Sorbona. Comincia a scrivere di cinema per la Gazette du cinema, entra nel giro dei Cahiers du cinéma due anni dopo firmandosi con lo pseudonimo Henri Lucas. Incoraggiato alla madre, erede di una stirpe di banchieri, comincia a viaggiare per vedere dal vivo, poi trova lavoro in Svizzera per la costruzione della diga della Grande Dixence nel Vallese.
Nel 1958 si lega in sodalizio artistico con l’amico François Truffaut. Insiem realizzano il cortometraggio Une histoire d’eau. Truffaut gli consegna il soggetto di À bout de souffle (Fino all’ultimo respiro) con cui debutta da regista nel 1959. Fin da quel folgorante esordio (con l’astro nascente Jean-Paul Belmondo e Jean Seberg) diventa un punto di riferimento. Il film è adottato come manifesto della Nouvelle Vague e ai produttori piace il suo atteggiamento iconoclasta ma devoto ai grandi generi popolari come, nel caso in questione, il poliziesco. Per dieci anni, fino al 1967, lavora duramente, con ben 22 titoli all’attivo (tra lunghi e corti) che fanno storia, tra cui Le petit soldat, Les carabiniers, Une femme est une femme, Bande à part, Une femme mariée e, Weekend, Deux ou trois choses que je sais d’elle.
Frattanto, Godard seduce la sua attrice-feticcio, Anna Karina, rompe l’amicizia con Truffaut per questioni di ideologia politica ed estetica, prende le distanze dalla maggior parte delle correnti in voga, ritagliandosi un ruolo di polemista, pioniere del nuovo. Ogni suo titolo fa scalpore, decostruisce letteralmente i codici della narrazione, trionfa anche al box office con Pierrot le fou (1965), arruola Brigitte Bardot (e Fritz Lang) per Le Mépris (Il disprezzo), partecipa alle contestazioni del ‘68 sia in strada che al Festival di Cannes, l’ultima sua apparizione in compagnia di Truffaut. Infatti già l’anno prima, nel ‘67, ha scelto una nuova via artistica: quella dell’impegno politico.
Dirige La chinoise e dà il via al suo periodo militante culminante negli anonimi Cinetracs del gruppo Dziga Vertov, Vento dell’est con Gian Maria Volontè e Crepa padrone tutto va bene (Tout va bien) con Yves Montand del ‘72 in cui fa il bilancio critico di una generazione di intellettuali scollati dalla vita reale, piu’ o meno come negli stessi anni fa in Italia Citto Maselli con Lettera aperta a un giornale della sera.
Va in Canada per un ciclo di conferenze e torna indietro con l’utopistico progetto di riscrivere a modo suo la storia del cinema: ne nasce un’opera visionaria e volutamente astratta che influenze il periodo successivo. Si richiude infatti a Grenoble per tre anni, taglia ogni contatto col mondo produttivo e si mette a sperimentare le tecniche della visione concentrandosi sugli aspetti tecnici: manipola la pellicola e i processi di sviluppo, usa mezzi economici e semi-professionali come il supporto 8mm, inventa obiettivi e tecniche di montaggio mai sperimentate. Negli anni Settanta è già pronto per la rivoluzione della banda magnetica con cui sostituisce la pellicola e si propone come pioniere delle nuove tecnologie. In parallelo sviluppa anche un’estetica e una linguistica del cinema assolutamente fuori dagli schemi.
Nel 1975 gira in video Nume’ ro Deux che somiglia più a un saggio per immagini che a un film in senso proprio. Nella bacheca di casa ha già due Leoni d’argento per Vivre sa vie e “La cinese”, insieme a moltissimi altri riconoscimenti, ma tutto cio’ sembra non interessarlo più: vuole proporsi come un pioniere anche al tempo dell’immagine elettronica e digitale, i suoi riferimenti sono Vertov, Ejzenstein, Griffith, autori che prima di lui hanno coniato un nuovo linguaggio. Nel 1982 la Mostra del cinema di Venezia gli conferisce un Leone d’oro alla carriera che lo spinge a un nuovo attivismo.
Torna al Lido un anno dopo con il rivoluzionario Prénom Carmen e il presidente della giuria, Bernardo Bertolucci, spiega ai suoi giurati che intende dargli il massimo premio ancor prima di vedere il film. Il pronostico si avvera e il film vince il Leone d’oro. Passion e Prénom Carmen sono i titoli spartiacque dell’ultima vita artistica di Godard. Seguono numerose prove, tra cui capolavori indecifrabili ma pieni di suggestione come Nouvelle vague (in cui tutti i dialoghi sono desunti da film del passato), lo scandaloso Je vous salue, Marie, Germania nove zero, in cui rilegge a modo suo il capolavoro amaro di Roberto Rossellini.
http://www.opinione.it/cultura/2022/09/13/eugenio-de-bartolis_jean-luc-godard-nouvelle-vague-%C3%A0-bout-de-souffle/
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