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In Indonesia tra il 1965 e il 1966 il generale Suharto prende il potere e dà il via ad una sanguinosa epurazione interna.
Con
la complicità dell'esercito, gruppi paramilitari arrestano e massacrano
oltre un milione di persone tra comunisti minoranze etniche e
oppositori politici. Tra quelle vittime c'era anche il fratello di Adi,
ucciso nell'eccidio del Silk River.
Oggi,
utilizzando il lavoro di ripresa realizzato durante il genocidio, Adi
vuole ricostruire la tragica fine del fratello. In quanto oculista, Adi
gira per foreste e villaggi, effettua visite di controllo agli anziani e
ne approfitta per farli parlare dei fatti di quasi mezzo secolo prima.
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Alla fine degli anni '60 in Indonesia, a seguito
dell'instaurazione di una dittatura, una terribile ondata di repressione
contro chiunque fosse sospettato di comunismo (o in generale di essere
un oppositore del sistema) ha portato ad efferati omicidi perpetrati da
tutti i livelli della scala gerarchica militare. Questi omicidi negli
anni non sono mai stati condannati ufficialmente e chi li ha commessi è
ancora al potere. Oggi il fratello di una delle vittime gira con una
troupe cinematografica per andare a parlare con i responsabili e cercare
di ottenere da loro non vendetta ma anche solo un'ombra di pentimento e
assunzione di responsabilità.
Era
difficile eguagliare la forza, lo stupore e l'incredibile serie di
eventi reali che sembrano scritti da uno sceneggiatore di The Act of
Killing (senza dubbio uno dei migliori documentari degli ultimi anni),
lo stesso però Joshua Oppenheimer ha scelto di non cambiare soggetto e
di girare il suo documentario successivo esattamente intorno ai medesimi
fatti, cambiando solo la prospettiva e la struttura. Non più un film i
cui protagonisti siano i carnefici, incaricati di raccontarsi attraverso
la candida brutalità con cui rievocano gesta efferate e mai punite, ma
un uomo, parente di una vittima, che decide di andare personalmente a
cercare il pentimento nei killer del fratello.
Il
cambio è significativo, tanto che il tema di The Look of Silence è
radicalmente diverso da quello di The Act of Killing (non più il
rapporto tra senso di colpa represso e rievocazione della memoria
attraverso la finzione ma quello tra responsabilità e rimozione della
memoria) e anche il risultato lo è. Come dice il titolo a regnare nel
film sono i silenzi che si stabiliscono tra i due interlocutori, chi
chiede conto della tragedia e chi ne era responsabile, i secondi non
parlano, si ammutoliscono, spesso non sanno che dire mentre il primo
immobile attende anche un minimo segnale di pentimento.
Le
interviste condotte dal giovane oculista (gran scelta di messa in scena
sottolinearne la professione come fosse un investigatore privato di
provincia) sono contrappuntate da immagini più vecchie dei killer che
confessano i propri crimini davanti alla videocamera senza nessuna
vergogna ma anzi rimettendoli in scena con una certa esaltazione (nella
stessa identica maniera che gli avevamo visto fare in The Act of
Killing). Quello che si incontra più spesso è un muro, nessuno vuole
assumersi le responsabilità, i più negano, molti dicono d'aver eseguito
ordini e se messi con le spalle al muro si trincerano nel silenzio.
É
alla fine un documentario d'ambiente The Look of Silence, che al
dinamismo furioso di The Act of Killing sostituisce le atmosfere
rarefatte, alla rabbia incredula la rassegnazione disperata. Ma è anche
un film meno riuscito (il paragone, sebbene ingiusto, è inevitabile data
la vicinanza che lo fa sembrare un sequel) e in assoluto sembra
incapace di reggersi sulle sue gambe. La filiazione del progetto
precedente è evidente mentre la struttura e la realizzazione sono
efficaci solo quando convenzionali mentre nelle parti più audaci (la
connessione con il padre malato del protagonista) sembra annaspare. Nel
complesso si ha la sensazione di essere di fronte al lavoro di un altro
regista tanto la mano appare differente.
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