La coproduzione italo-francese dedicata
alla vita e alla tragica morte di Iolanda Gigliotti, meglio nota con il
nome d’arte di Dalidà, può piacere o meno. A chi scrive è piaciuta,
nonostante l’abuso ormai frequente della tecnica del flashback, che non
aiuta la scorrevolezza della narrazione, e qualche incertezza nel
“ridoppiaggio” da parte degli interpreti italiani, dopo l’originaria
produzione Pathè. “Specifico filmico” a parte, la pellicola andata in
onda mercoledì scorso su Rai 1 presenta comunque un grande merito:
quello di avere portato, sia pur con pochi fotogrammi, a conoscenza del
grande pubblico una persecuzione di cui la stragrande maggioranza dei
nostri connazionali è all’oscuro: la deportazione in campi di
concentramento nel deserto egiziano degli italiani maschi dai 15 ai 65
anni (e delle donne ritenute “pericolose”), dopo il 10 giugno 1940.
L’operazione Tombak, questo il nome in codice della retata, fu imposta
al riluttante governo egiziano dagli inglesi, che esercitavano di fatto
il protettorato sul Cairo e che imposero la rimozione del primo ministro
Ali Maher, favorevole a noi italiani, e per questo internato anche lui.
A effettuare gli arresti furono poliziotti egiziani, probabilmente meno
maldisposti verso i nostri connazionali di quanto non appaia dalla
pellicola, perché la nostra presenza ad Alessandria e al Cairo era
apprezzata e aveva contribuito alla crescita economica e culturale di
quella nazione, ma a gestire di fatto il piano Tombak furono le truppe
britanniche.
In realtà, l’Italia non dichiarò
mai guerra all’Egitto, e viceversa; molti giovani ufficiali, fra cui
Nasser e Sadat, simpatizzavano più o meno scopertamente per l’Asse e
molti egiziani aspettavano con ansia le truppe di Rommel e l’arrivo ad
Alessandria di Mussolini, il cui nome veniva benevolmente
storpiato in Mussa Nili: il Mosè del Nilo, destinato a redimere il Paese
delle Piramidi dall’arrogante colonialismo britannico.
La deportazione degli italiani d’Egitto,
il sequestro dei loro beni, l’abbandono in stato d’indigenza delle loro
famiglie, fra cui quella di Dalidà, fu un’operazione priva di
giustificazioni giuridiche per cui non ha pagato nessuno e di cui hanno
parlato pochissimi. La maggior parte dei deportati fu reclusa nei
terribili campi di concentramento del Fayed, in pieno deserto; molti
perirono di stenti, alcuni sotto il piombo dei carcerieri inglesi o
delle sentinelle di colore. Solo la benemerita Ande (l’Associazione che
ha conservato la memoria della nostra presenza in Egitto, animata dalla
straordinaria personalità di Franco Greco) ha dedicato alla vicenda una
documentatissima e obiettiva pubblicazione liberamente consultabile su
internet (http://www.qattara.it/italiani%20d’egitto_files/gli-italiani-degitto-nella-seconda-guerra-mondiale.pdf).
Chi ha seguito la pellicola ha capito
che la tragedia personale di Dalidà, la sua depressione, il suo sofferto
rapporto con gli uomini, furono legati all’arresto e alla durissima
detenzione del padre. Questi, di origini calabresi, raffinato e delicato
primo violino dell’orchestra del Cairo, non si riprese mai dalla
prigionia, che lo rese alla fine della guerra un uomo risentito col
mondo, violento con la moglie e con la stessa amatissima figlia. Una
piccola tragedia in una grande tragedia della storia di cui sarebbe bene
gli italiani venissero a conoscenza, e non solo attraverso qualche
fugace fotogramma.
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