Obliterare il modesto e consueto artigianato della parola ha prodotto serialmente dei sedicenti attori costretti a bofonchiare la battuta. Mastandrea, Mezzogiorno, Bobulova e tutto il generone delle new entry del presunto stardom italiano non sa spiccicare un “Vorrei poterti credere” o un banale “Non mi hai mai amato quanto ti ho davvero amato” senza strascicare sillabe e inghiottirle nell’inettitudine d’una chiara dizione. Lo spettatore, sempre più rincoglionito, scambia tutto questo per introspezione o, addirittura, per crepuscolarismo emozionale. E, invece, siamo solo in presenza di mancanza di fondamentali. La piega intimista che ha preso il cinema italiano, autoimmolatosi nel minimalismo provinciale, deriva non tanto da una precisa scelta ideologica bensì da una desolante mancanza di maestri di recitazione. E allievi della parola. Gli Americani, se non altro, nascondono tutto dietro a una serie di botti e scorregge di crassa sopraffazione auditiva; per tacere dei luoghi comuni dialogici e dell’esasperazione dei tratti parodistici: la buttano in caciara, come si dice nella Capitale.
L’ambiguo Checco Zalone alfine esce allo scoperto. Quando tengono i piedi in due staffe sono traditori, non c’è dubbio. I tratti scorretti del repertorio di Zalone, pur mediocre, lasciavano intravedere una fiammella di speranza, ma quando il padrone chiama, evidentemente, occorre tirare le reti a riva con tutti i merluzzi e i tonni dapprima irretiti. Ora il Nostro se ne esce con “Vacinada”: nuovi tormentoni e vecchie fregature.
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Si va, anzi, al ribasso, sempre e comunque. Presto persino il tam tam assurgerà a delicata ragnatela sonora.
Nelle scuole si allevano trogloditi tecnici: a che pro Bach o la drammatica tensione della voce di Hammill?
E poi la facilità. Il click. La comodità. La comodità lastrica la via verso l’inferno. Per aspera ad astra; la lectio facilior reca all'inferno.
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