Dai miei cinque anni i fumetti di Disney erano il mio pane
quotidiano. Poi ne arrivarono altri, quelli dell’ “Intrepido”, Batman e
soprattutto Flash, che mi appassionava di più: ma Flash è di qualche
anno posteriore, giacché si coniuga a un’altra mia passione, la
fantascienza, la velocità della luce, il viaggio nel tempo. Si
aggiunsero, al cinema e come “strisce”, altri prediletti, il coniglio
Bunny e il grandissimo Gatto Silvestro. Ma tutto questo nasce dalla
prima invenzione di Disney, è un omaggio a lui. Le “strisce” di
Topolino recavano allora un testo, e le avventure s’interpretavano
leggendolo attentamente. Sin dall’infanzia il topo saputello non mi era
simpatico, così come m’infastidiva il libro Cuore, che più
tardi ero costretto a leggere. Pure un bimbo piccolo poteva avvertire
che Topolino è troppo perbene, troppo bempensante. Alleato del
commissario Basettoni, è un difensore dell’ordine costituito basato
sulla proprietà e sulla discriminazione di classe. Con un po’ di enfasi,
possiamo affermare che Topolino è un cantore della triade
“Dio-Patria-Famiglia”. È un piccolo borghese e tale è la sua ideologia.
L’Italia fascista lo accolse con condivisione.
La mia simpatia andava a Paperino e alla sua famiglia. Paperino,
idealista e sfortunato, eversore come Silvestro, la sua personalità
messa sempre in ombra da altri tre cantori dei Buoni Sentimenti, i
nipotini, infallibili e sapienti, grazie al loro manualetto tascabile.
Anche Zio Paperone, grandioso mostro di avarizia, reincarnazione d’un
tipo nato con Plauto e giunto allo Scrooge di Dickens, mi piaceva molto.
Che delizia vederlo tuffarsi nella piscina il liquido della quale sono
dollari e non acqua, farsi la doccia con le monete! La qualità dei
disegni degli ateliers artistici di Disney era strepitosa; nell’
infanzia il mio culto mi consentiva di distinguere addirittura le
differenti mani dei disegnatori: avevo i miei preferiti. L’esser
condotti al cinema per poter godere le avventure di Topolino e della
famiglia dei paperi era allora un raro premio.
Dovevo avere sei anni quando con una zia mi mandarono a vedere Fantasia.
È uno dei capolavori della storia del cinema, e l’ incanto non nasce
solo dal suo essere un film musicale, con grandi opere classiche, e in
eccelse esecuzioni dirette da un Maestro come Leopold Stokowski.
Topolino pure vi partecipa, interpretando il delizioso episodio del
Poema Sinfonico di Dukas L’apprendista stregone, che deriva da
una Ballata di Goethe. Tanto per dichiarare il livello culturale al
quale il topino, qui non saccente, era portato dal suo creatore. Fantasia
è dall’inizio alla fine una serie d’immagini squisite, partorite dal
più alto gusto figurativo. Il connubio di esse con la musica a volte è
racconto di una storia, a volte è pura astrazione simbolica.
Presupponeva troppo dallo spettatore, non si dice infantile, anche
dall’adulto. Di allora. Figuriamoci oggi quest’astrazione chi può
afferrarla. Una infantile mente vergine ne sarebbe educata al
pensiero.
Ma quest’anno la festa è italiana. All’inizio del 1949 il fumetto
incominciò a essere prodotto da noi nel formato “striscia” e con la
copertina gialla, oggetto di culto di quelli che hanno all’incirca
settant’anni, poco più, poco meno; e poi di tutti quelli venuti dopo. E
vi si vede il genio artistico nazionale. Alla Mondadori si producevano
storie nuove e nuovi disegni. Le storie avevano una logica pari, se non
superiore, a quelle create dal genio Disney; e i disegnatori, anche
questi riconoscibili uno per uno per un ductus stilistico pur nel ductus
generale erano ancor più bravi di quelli americani. A un certo punto il
successo del fumetto italiano fu tale che il nostro Topolino diventò da
esportato esportatore. Egli, ma tutti i personaggi, da Gastone a Qui.
Quo, Qua (anch’essi troppo perbene per i miei gusti) a Paperina a Ciccio
e Pluto, s’irradiò dall’Italia in decine di paesi esteri. Tuttora
l’industria topolinia è fiorente, come se non dovesse fermarsi mai. E
torno al nostro genio artistico. Dal sommo vorrei fare un paragone
all’arte cosiddetta “piccola”: parlo in senso di valori assoluti, non di
storia sociale. Andiamo all’ Autunno del Medio Evo. Cosa c’è di più perfetto, quanto a composizione architettonica e insieme pathos della Deposizione di Rogier var der Weyden? O di più grandioso nella concezione d’insieme e nella meravigliosissima finitura dei particolari del Trittico di Gand di Jan van Eyck? O di più dolcemente intimo nel Ritratto dei coniugi Arnolfini
dello stesso pittore, con lo specchio anamorfico sullo sfondo? Ma
provate a contemplare un sol quadro del loro allievo italiano,
Antonello: il San Girolamo nello studio. La stessa finitura è
superata dalla sua arte; il giuoco delle prospettive architettoniche si
fa un’immagine del cosmo. Paesaggi misteriosi s’intravvedono sullo
sfondo. L’idea della bellezza e dell’armonia, ch’è nostra, vi si afferma
con una forza che non ha confronti.
Non sembri che faccio della retorica. Ma i ragazzi che ancora
realizzano il Topolino italiano sono, sia pur minimi, eredi di quella
qualità nazionale che nell’arte ci ha fatto, fino a un certo punto della
storia, i primi del mondo. Qualunque cosa ci venga da una cultura
straniera, abbiamo saputo farla nostra portandola a un grado più alto.
Poi sono venuti i barbari. In parte dall’estero, in parte generati da
noi. Perché nel nostro genio nazionale c’è anche l’odio verso noi
stessi e una libidine di autodistruzione che forse prevarrà in modo
definitivo.
*Da Libero del 10.04.2019
www.paoloisotta.it
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