Mentre il no-future celebrava le sue esequie, mutando pelle in algida elettronica ad uso intrattenimento Festivalbar, Ferretti era ancora operatore psichiatrico, malmesso reduce da Lotta Continua. S’è mai visto il caso di un cantante di musica nuova, esordiente vecchio di trent’anni? Miracoli e “apparizioni alla madonna”. Nonostante la pretesa totalmente infondata di autodefinirsi la prima banda punk italiana – a inizi ’80 c’erano già stati Decibel, Krisma, Great Complotto, Gaznevada, addirittura i fiorentini e assonanti Pankow – è però lecito affermare che ne proposero la più originale espressione tricolore. Un vessillo autarchico quanto alchemico: il verde della pianura padana, il bianco delle origini cattoliche e montanare, il rosso già vetusto del comunismo, nell’epoca dei paninari in Moncler e dell’incravattamento precoce degli yuppies. I CCCP difatti non tradivano influenze americane o anglosassoni, non pagavano pegno alle mode, non avevano evidenti debiti artistici, se non marginalmente, agli esordi, nei confronti degli anarco-punk Crass, degli elettro-teutonici DAF e forse dei pan-sloveni Laibach. C’entravano nulla con la barbuta tradizione cantautorale, nulla con la canzone di protesta, poco con la new wave e col rock, zero col music-business, ma molto con l’arte d’avanguardia. Semmai, avvicinandosi all’extravaganza mistica – posta ad Oriente – di Franco Battiato, in lui trovarono un sodale di sprezzatura, un altro che non puoi paragonare a casaccio. Poca cosa davvero l’appartenenza ad una scena, se rapportata all’armamentario “fuori scena” trasposto sui palchi, alla moltitudine d’indizi realistici, verosimili, drogati, parodistici e parossistici, riciclati, subliminali, teatrali, trasformati in nuova poetica periferica, in un totale ribaltamento di prospettiva. Davanti alla grande scritta Coop a Reggio Emilia come nell’ibernato immaginario oltre-Muro a Berlino. Così la pellicola si srotola e i fotogrammi rilasciano tracce a ritroso: dapprima fu il Comunismo, sistema di potere totalizzante nell’Emilia del dopoguerra. Politica, cultura, lavoro ed economia, vita sociale si fecero colà teatro di una lotta per l’egemonia o la sopravvivenza, tra rossi e bianchi. Tra marxisti e cattolici, coi primi fortissimi nelle città e nella “bassa”, mentre i secondi resistenti in montagna, sull’Appennino, dove l’attaccamento alla tradizione e ai riti ancestrali era ancora un dato tangibile, prassi rurale d’altura. Contrapposizione netta, prepolitica, che troverà precisa narrazione letteraria e poi cinematografica in riva al Po, nella saga del Mondo piccolo, di Giovannino Guareschi. Paradossale come quelle due avverse figure archetipali – il prete Camillo e il sindaco rosso Peppone – ci appaiano ora entrambe famigliarmente reazionarie.
Nel rassicurante paesaggio in bianco e nero fluviale ad uso filmico, nell’umido tabernacolo della Pianura Padana, così metafisico e preindustriale, viene messa in scena con trucco neorealista la piccola battaglia tra due diverse tipologie di conservatori (quelli che veramente lo erano e quelli che millantavano un utopico “sol dell’avvenire”), poi fagocitata dalla grande battaglia tra identità e progresso livellante. E ancora, nelle fotografie assenteiste di Luigi Ghirri, in certe pagine evasive di Pier Vittorio Tondelli, nelle memorie di mondine e balere, addirittura nella frettolosa mitologia partigiana e poi cattocomunista si possono cogliere indizi preziosi, tutta l’atmosfera della fine del progresso inteso come idolo perpetuo e giogo d’alienazione. Occorre conoscere questa terra per tirare le fila della vicenda riguardante i CCCP – Fedeli alla Linea. Occorre tenere a mente la colossale mutazione paesaggistica: colate di cemento, tangenziali e ipercoop, prefabbricati e villette, traffico di TIR, maiali e formaggi, brufoli di modernismo “culturale” messi accanto a cascine diroccate, alle pievi silenti, a vecchie ciminiere, alle bonifiche con fasci littori divelti, alle stalle, cumuli di letame fumante, al ricordo dell’operaismo divenuto nel frattempo culto del terziario, quindi in tempi più recenti cacofonia di Hub, Smart city e Kebab-Träume.
Come un’enclave rurale post-sessantottina, santuario mobile custode di ordine e caos, il piccolo mondo reggiano filosovietico se ne andò altrove, deambulando per le autostrade d’Europa, alla ricerca di un immaginario diverso da quello stereotipato dell’opulento occidente. CCCP tornò a casa nel momento giusto, quando ancora si poteva osare un’arguta iconoclastia, per poi ritirarsi gradualmente da dove era venuta: nella casa dei padri, anzi nella casa delle Madri, perché l’Emilia è femmina.
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