sabato 13 aprile 2019

Fedeli alla linea

Pubblicato il 13 Aprile 2019 da Donato Novellini
Categorie : Artefatti
Possibile circoscrivere l’esperienza dei CCCP – Fedeli alla linea, enucleandola da ciò che ne avrebbe rappresentato l’applaudito seguito (C.S.I., Consorzio Produttori indipendenti, P.G.R., il reducismo equestre di Giovanni Lindo Ferretti o quello vagamente più mondano di Massimo Zamboni)?  Forse si utilizzando uno schema arbitrario in quattro mosse, prendendo a pretesto il titolo del loro ultimo disco: Epica Etica Etnica Pathos. Soprattutto cercando di eludere le numerose trappole, talvolta disseminate dagli stessi protagonisti sul tragitto a ritroso, posate al fine di perpetuare la mitologica reliquia della ragione sociale. Ottimi pubblicitari i quattro, tanto da affidare alla Storia una bagatella da provinciali annoiati infatuati dalla Berlino au-delà, fattasi epopea per casuali adepti. Difatti, come sovente accade, il soggetto, con la sua narrazione talvolta enfatica, talaltra subdolamente nostalgica, o peggio tentando la sterile via dell’oggettività, diventa fardello del quale liberarsi, al fine di una possibile trattazione critica. Uccidi i tuoi idoli, motto nichilista e vecchia pratica punk, torna buono qui per togliere il velo nozionistico, forse per ri-velare d’altre parole la fiaba ad uso devoti, forse per tentare un pellegrinaggio tra segni dispersi, lasciati sul campo: “Produci consuma crepa”, “non studio non lavoro non guardo la tv”, “lode a Mishima e a Majakóvskij”, “Qu’est-ce que vous voulez que ça me foute! L’atmosphère n’est plus la même”. Curioso dunque come le memorie affabulatorie degli ex filosovietici, fintamente riottose ma invero impaludate in una permanente celebrazione di ciò che fu, tradiscano l’inevitabile ricostruzione arbitraria delle origini e dei bei tempi andati; nessuna seduzione “alla ricerca del tempo perduto”, bensì, soprattutto da parte di Ferretti, l’utilizzo dialettico del passato, al fine di far paragone con l’apparente ravvedimento ideologico della maturità; “prima ero un cattivo punk comunista e materialista, ora sono un buon cattolico, eremita che detesta il progresso”, più o meno così, a voler sintetizzare brutalmente il sillogismo del paroliere di Cerreto Alpi. Un mutamento radicale che puzza di falso o l’ennesima trovata pour épater le bourgeois (rive gauche)? Difatti: e se fosse sempre stato un lungimirante reazionario? Dove stava l’ideale di progresso negli anni ’80? A Mosca o a New York? E poi: allora era veramente il Comunismo? Oppure una sua stilizzazione barocca? Una parodia pop (e paracula) di falce e martello veicolata con mezzi da réclame? Contenitore come un altro, nel relativismo commerciale, nella deregolamentazione liberista, nell’ottimismo plasticoso di quegli anni? L’abbandono dell’autoreferenziale e settaria scena indipendente italiana, in favore di un contratto con la multinazionale Virgin, le apparizioni in tv, Sanremo Rock, Amanda Lear, il sostegno della bovina intellighenzia progressista, scioccamente incantata dal colore rosso; così come preghiere e canti alpini, messi a repertorio generando malumori tra gli antagonisti dei centri sociali, un immaginario “localista” e popolare assurto a ordine cosmogonico, heimat imposto a discapito delle mode anglosassoni: contraddizioni e ambiguità, sublime gioco d’equivoci com’è dell’arte. Non si può far altro che tradire sé stessi mantenendo lo stile, e mutar quello quando il seguito s’è fatto pigro e conosce le canzoni a memoria; spiazzare, oppure assumere la posa del moralista pasoliniano alle prese con uno zeitgeist avverso. I CCCP – Fedeli alla linea sono arrivati tardi, quindi al momento giusto della festa, quando le ragazze ossigenate coi vestitini a pois erano sufficientemente sbronze e bastava un aforisma icastico per trarle in inganno: “Lasciami qui lasciami stare lasciami così, non dire una parola che non sia d’amore”. Oppure in anticipo, nella narrazione di un potere politico corrotto che avrebbe preso il nome di Tangentopoli (“Soffocherai tra gli stilisti, imprecherai tra i progressisti, maledirai la Fininvest, maledirai i credit cards”).
Mentre il no-future celebrava le sue esequie, mutando pelle in algida elettronica ad uso intrattenimento Festivalbar, Ferretti era ancora operatore psichiatrico, malmesso reduce da Lotta Continua. S’è mai visto il caso di un cantante di musica nuova, esordiente vecchio di trent’anni? Miracoli e “apparizioni alla madonna”. Nonostante la pretesa totalmente infondata di autodefinirsi la prima banda punk italiana – a inizi ’80 c’erano già stati Decibel, Krisma, Great Complotto, Gaznevada, addirittura i fiorentini e assonanti Pankow – è però lecito affermare che ne proposero la più originale espressione tricolore. Un vessillo autarchico quanto alchemico: il verde della pianura padana, il bianco delle origini cattoliche e montanare, il rosso già vetusto del comunismo, nell’epoca dei paninari in Moncler e dell’incravattamento precoce degli yuppies. I CCCP difatti non tradivano influenze americane o anglosassoni, non pagavano pegno alle mode, non avevano evidenti debiti artistici, se non marginalmente, agli esordi, nei confronti degli anarco-punk Crass, degli elettro-teutonici DAF e forse dei pan-sloveni Laibach. C’entravano nulla con la barbuta tradizione cantautorale, nulla con la canzone di protesta, poco con la new wave e col rock, zero col music-business, ma molto con l’arte d’avanguardia. Semmai, avvicinandosi all’extravaganza mistica – posta ad Oriente – di Franco Battiato, in lui trovarono un sodale di sprezzatura, un altro che non puoi paragonare a casaccio. Poca cosa davvero l’appartenenza ad una scena, se rapportata all’armamentario “fuori scena” trasposto sui palchi, alla moltitudine d’indizi realistici, verosimili, drogati, parodistici e parossistici, riciclati, subliminali, teatrali, trasformati in nuova poetica periferica, in un totale ribaltamento di prospettiva. Davanti alla grande scritta Coop a Reggio Emilia come nell’ibernato immaginario oltre-Muro a Berlino. Così la pellicola si srotola e i fotogrammi rilasciano tracce a ritroso: dapprima fu il Comunismo, sistema di potere totalizzante nell’Emilia del dopoguerra. Politica, cultura, lavoro ed economia, vita sociale si fecero colà teatro di una lotta per l’egemonia o la sopravvivenza, tra rossi e bianchi. Tra marxisti e cattolici, coi primi fortissimi nelle città e nella “bassa”, mentre i secondi resistenti in montagna, sull’Appennino, dove l’attaccamento alla tradizione e ai riti ancestrali era ancora un dato tangibile, prassi rurale d’altura. Contrapposizione netta, prepolitica, che troverà precisa narrazione letteraria e poi cinematografica in riva al Po, nella saga del Mondo piccolo, di Giovannino Guareschi. Paradossale come quelle due avverse figure archetipali – il prete Camillo e il sindaco rosso Peppone – ci appaiano ora entrambe famigliarmente reazionarie.
Nel rassicurante paesaggio in bianco e nero fluviale ad uso filmico, nell’umido tabernacolo della Pianura Padana, così metafisico e preindustriale, viene messa in scena con trucco neorealista la piccola battaglia tra due diverse tipologie di conservatori (quelli che veramente lo erano e quelli che millantavano un utopico “sol dell’avvenire”), poi fagocitata dalla grande battaglia tra identità e progresso livellante. E ancora, nelle fotografie assenteiste di Luigi Ghirri, in certe pagine evasive di Pier Vittorio Tondelli, nelle memorie di mondine e balere, addirittura nella frettolosa mitologia partigiana e poi cattocomunista si possono cogliere indizi preziosi, tutta l’atmosfera della fine del progresso inteso come idolo perpetuo e giogo d’alienazione. Occorre conoscere questa terra per tirare le fila della vicenda riguardante i CCCP – Fedeli alla Linea. Occorre tenere a mente la colossale mutazione paesaggistica: colate di cemento, tangenziali e ipercoop, prefabbricati e villette, traffico di TIR, maiali e formaggi, brufoli di modernismo “culturale” messi accanto a cascine diroccate, alle pievi silenti, a vecchie ciminiere, alle bonifiche con fasci littori divelti, alle stalle, cumuli di letame fumante, al ricordo dell’operaismo divenuto nel frattempo culto del terziario, quindi in tempi più recenti cacofonia di Hub, Smart city e Kebab-Träume.
Come un’enclave rurale post-sessantottina, santuario mobile custode di ordine e caos, il piccolo mondo reggiano filosovietico se ne andò altrove, deambulando per le autostrade d’Europa, alla ricerca di un immaginario diverso da quello stereotipato dell’opulento occidente. CCCP tornò a casa nel momento giusto, quando ancora si poteva osare un’arguta iconoclastia, per poi ritirarsi gradualmente da dove era venuta: nella casa dei padri, anzi nella casa delle Madri, perché l’Emilia è femmina.

Nessun commento:

Posta un commento

Chiunque può inserire commenti, che sono moderati