domenica 5 maggio 2019

La leggenda del Grande Torino

Il Toro non si riprese più, sportivamente, dalla tragedia. Negli anni Sessanta fu costretto ad accettare quella che oggi chiameremmo sponsorizzazione, da parte di un’industria dolciaria. Parve un’onta, un sacrilegio. Giovanni Agnelli, con la velenosa albagia di chi possiede tutto e ha intorno a sé solo adulatori e servi, da allora chiamò il Torino, storico avversario della squadra di sua proprietà, “il Talmone”.
Poi ne prese in mano le sorti un imprenditore mantovano fattosi da solo, Orfeo Pianelli, l’unico che osasse sfidare l’egemonia della nuova famiglia reale subalpina. Comprò dal Genoa il più grande della sua generazione, Gigi Meroni; ricordiamo, bambini di pochi anni, la mobilitazione impressionante dei tifosi rossoblù contro quel trasferimento. La farfalla granata morì a soli 24 anni, travolta sul Corso Umberto dopo la partita domenicale. Un’altra vita infranta, un nuovo segno della sorte. Chi guidava l’automobile che lo uccise era un tifoso accanito, destinato, molti anni dopo, a diventare presidente di un Torino in rovinoso declino.
Oggi vince solo chi può permettersi bilanci da grande azienda, tutto si misura in denaro nello sport come in ogni ambito della società. Chissà se sarebbe possibile un altro Grande Torino, se per miracolo tutti i migliori talenti si riunissero nel Verona, nel Bari o nella Triestina. All’epoca capitò e, come in molte leggende, ci furono anche i sopravvissuti. Alcuni calciatori, gli infortunati e diverse riserve, non parteciparono alla trasferta portoghese; non c’erano “sponsor” e non erano ammessi cambi e sostituzioni. Per decenni abbiamo incrociato uno di loro nel quartiere genovese di Nervi. Si chiamava Gandolfo, era un portiere di medio livello e, a carriera conclusa, fece il commerciante. Per chi scrive, fu il segno tangibile che il mito aveva carne e sangue, il Grande Torino era esistito davvero, non era un racconto del babbo.
Il tempo porta via tutto, anche Gandolfo non c’è più, quel “mé Turìn grand, mé Turin fort” cantato magistralmente da Giovanni Arpino che, incredibile a dirsi, era un “gobbo”, è nel mito e ci resterà sino a quando qualcuno saprà vivere poeticamente. Passa il dolore, altre tragedie si sovrappongono alle antiche, ma gli Invincibili del pallone sono soltanto loro, i figli di quell’Italia un po’ paesana con i panni rammendati e tanta voglia di rinascita, gioia, pace e libertà. Vestiti di granata, colore un po’ strano e un po’ cupo, hanno restituito orgoglio a una nazione prostrata, giocato a calcio non come gli dèi, ma come gli uomini semplici e forti. Nella lirica Amore e morte, Giacomo Leopardi fa precedere il canto da un verso del greco Menandro: muor giovane colui che al cielo è caro. BacigalupoBallarinMarosoGrezarRigamontiCastiglianoMentiLoikGabettoMazzolaOssola: tutto attaccato senza prendere fiato.
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