Il Toro non si riprese più, sportivamente,
dalla tragedia. Negli anni Sessanta fu costretto ad accettare quella che
oggi chiameremmo sponsorizzazione, da parte di un’industria dolciaria.
Parve un’onta, un sacrilegio. Giovanni Agnelli, con la velenosa albagia
di chi possiede tutto e ha intorno a sé solo adulatori e servi, da
allora chiamò il Torino, storico avversario della squadra di sua
proprietà, “il Talmone”.
Poi ne prese in mano le sorti un imprenditore mantovano fattosi da
solo, Orfeo Pianelli, l’unico che osasse sfidare l’egemonia della nuova
famiglia reale subalpina. Comprò dal Genoa il più grande della sua
generazione, Gigi Meroni; ricordiamo, bambini di pochi anni, la
mobilitazione impressionante dei tifosi rossoblù contro quel
trasferimento. La farfalla granata morì a soli 24 anni, travolta sul
Corso Umberto dopo la partita domenicale. Un’altra vita infranta, un
nuovo segno della sorte. Chi guidava l’automobile che lo uccise era un
tifoso accanito, destinato, molti anni dopo, a diventare presidente di
un Torino in rovinoso declino.
Oggi vince solo chi può permettersi bilanci da grande azienda, tutto
si misura in denaro nello sport come in ogni ambito della società.
Chissà se sarebbe possibile un altro Grande Torino, se per miracolo
tutti i migliori talenti si riunissero nel Verona, nel Bari o nella
Triestina. All’epoca capitò e, come in molte leggende, ci furono anche i
sopravvissuti. Alcuni calciatori, gli infortunati e diverse riserve,
non parteciparono alla trasferta portoghese; non c’erano “sponsor” e non
erano ammessi cambi e sostituzioni. Per decenni abbiamo incrociato uno
di loro nel quartiere genovese di Nervi. Si chiamava Gandolfo, era un
portiere di medio livello e, a carriera conclusa, fece il commerciante.
Per chi scrive, fu il segno tangibile che il mito aveva carne e sangue,
il Grande Torino era esistito davvero, non era un racconto del babbo.
Il tempo porta via tutto, anche Gandolfo non c’è più, quel “mé Turìn grand, mé Turin fort”
cantato magistralmente da Giovanni Arpino che, incredibile a dirsi, era
un “gobbo”, è nel mito e ci resterà sino a quando qualcuno saprà vivere
poeticamente. Passa il dolore, altre tragedie si sovrappongono alle
antiche, ma gli Invincibili del pallone sono soltanto loro, i figli di
quell’Italia un po’ paesana con i panni rammendati e tanta voglia di
rinascita, gioia, pace e libertà. Vestiti di granata, colore un po’
strano e un po’ cupo, hanno restituito orgoglio a una nazione prostrata,
giocato a calcio non come gli dèi, ma come gli uomini semplici e forti.
Nella lirica Amore e morte, Giacomo Leopardi fa precedere il canto da
un verso del greco Menandro: muor giovane colui che al cielo è caro.
BacigalupoBallarinMarosoGrezarRigamontiCastiglianoMentiLoikGabettoMazzolaOssola:
tutto attaccato senza prendere fiato.
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