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Dopo
venticinque anni di attività, Aydin si è ritirato dalle scene e ora
gestisce un piccolo albergo nel cuore della Cappadocia. Con lui ci sono
la sorella Necla, che soffre ancora per il recente divorzio, e la
giovane moglie Nihal, con la quale i rapporti sono in una fase di
difficoltà e di tensione.
Invero
Aydin ha molte altre proprietà nella zona, alcuni affittuari non pagano
e ricevono l'avviso di sfratto. Tra questi un Imam gli si rivolge per
avere comprensione e conforto. Aydin, che non si occupa direttamente
degli affari, lo ascolta con difficoltà senza riuscire ad arginare la
reciproca incomprensione. Anche con la moglie le difficoltà di
convivenza aumentano.
Quando
annuncia di voler partire per Istambul, Aydin in realtà poco dopo
rinuncia e torna indietro. Preferisce restare in albergo, nel proprio
studio dove continua a scrivere articoli per il giornale locale e avvia
il progetto di un libro sulla storia del teatro turco.
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In
un villaggio sperduto dell'Anatolia, in cui giungono turisti
interessati alla struttura di antiche abitazioni che formano un tutt'uno
con la roccia, Aydin è il proprietario di un piccolo ma confortevole
albergo, l'Othello. L'uomo è anche il padrone di diverse case i cui
inquilini non sono sempre in grado di pagare l'affitto e vengono puniti
con il sequestro di televisore e frigorifero. Aydin vive con la giovane
moglie Nihal e con la sorella Necla che li ha raggiunti dopo il
divorzio. L'uomo è stato attore e ora sta pensando di scrivere un libro
sulla storia del teatro turco.
Nuri
Bilge Ceylan ancora una volta riesce ad emozionare con un'opera che
sfida la lunga durata uscendone vincitrice assoluta. Il regista turco
realizza una sintesi del proprio cinema dimostrando una libertà creativa
che lo affranca dalla ripetitività. Dopo il successo dei film
precedenti (e in particolare di C'era una volta in Anatolia) sarebbe
stato facile tornare a proporre atmosfere e tempi rarefatti. Ceylan opta
invece per una sceneggiatura in cui la parola domina integrandosi con
un paesaggio e con interni che riflettono e, al contempo, determinano
gli stati d'animo. Se il rimando a Shakespeare è in questa occasione
palese (dal nome dell'hotel al manifesto di un "Antonio e Cleopatra"
fino a una diretta citazione) l'amato Cechov torna a innervare l'opera
del regista. Perché il film è pervaso da una sensazione di resa alla
fragilità dei rapporti mentre al contempo se ne cerca una ragione e una
soluzione (magari nella Istanbul che sostituisce come meta desiderata la
Mosca del Maestro russo). Ceylan però si impadronisce di questo mood
per operare una lettura delle relazioni uomo/donna che, portata sullo
schermo grazie ad attori straordinari, ne fa emergere le pieghe e le
piaghe più nascoste. Aydin è un possidente: possiede edifici, possiede
la cultura, possiede sua moglie o, meglio, crede di possederla. Ha
costruito intorno a lei una gabbia di attenzioni che è si è trasformata
in una prigione che lo ha isolato a sua volta. A poco valgono le
riflessioni sull'arte e sulla scrittura di quest'uomo apparentemente
bonario (il lavoro sporco tocca al suo braccio destro).
A
infrangersi non sarà solo il vetro del suo fuoristrada. Perché l'uomo
Aydin si ritroverà davanti in Nihal non più la ragazza che aveva sposato
ma una giovane donna che cerca la propria, seppur limitata, autonomia e
ciò accadrà senza che lui abbia voluto accorgersi del cambiamento. Sarà
un suo intervento che considera assolutamente normale, se non
addirittura doveroso, che farà esplodere tensioni troppo a lungo
represse. Nihal però avrà a sua volta modo di sperimentare quanto ciò
che noi riteniamo 'buono' per gli altri non sempre viene percepito come
tale. Il sonno invernale di Ceylan non è un letargo pacificatore.
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